Oggi la parola flessibilità è uno dei lemmi più utilizzati nel mondo lavorativo. La sua storia nasce qualche decennio fa accompagnata dall’idea di “capitalismo flessibile” che è andata rapidamente diffondendosi e poi via via radicandosi nei sistemi sociali occidentali. Flessibilità significa versatilità, prontezza ai cambiamenti con breve preavviso, assunzione continua di rischi. Sono caratteristiche che il lavoratore o la lavoratrice di oggi si presume debbano possedere per potersi orientare e stare nel mondo del lavoro dove oramai quasi più nessuno immagina di iniziare e concludere la propria vita lavorativa nello stesso luogo di lavoro e facendo la medesima mansione. Esattamente all’opposto della stabilità, linearità, sedentarietà, rigidità alle quali erano abituate le generazioni nate nel trentennio glorioso del boom economico (1945-1975 circa). Flessibilità è continuo cambiamento, ma anche preoccupazione generata dal cambiamento perché è difficile costruire traguardi a lungo termine quando tutto ruota sul breve periodo. L’illusione è che attivi una maggiore libertà, che apra a più rosee possibilità di scelta, soprattutto in termini di conciliazione tra tempo professionale e tempo familiare e che ci svincoli dal controllo; in realtà la flessibilità ha creato nuove regole e nuove forme di controllo, meno visibili, ma non meno insidiose. Dietro ai vantaggi decantati dai suoi sostenitori, in primis l’aumento del bagaglio di conoscenze e competenze personali, ma anche della crescita economica con presunti benefici per la produttività e competitività delle aziende sul mercato, la flessibilità rivela anche tutte le sue contraddizioni. A fronte di una crescita auspicata, il risultato in questi ultimi decenni si è dimostrato piuttosto deludente: disoccupazione, diminuzione della produttività, crisi economica. Oltre che sul sistema economico, la questione lascia segni profondi anche sulle persone e sui sistemi sociali: il cambiamento ha senso di fronte a reali possibilità di cambiare, che spesso però mancano. Demotivazione, frustrazione, demansionamento, espatrio sono solo alcuni degli esiti inevitabili di queste dinamiche. Quando tutto cambia velocemente come si fa a dare fiducia e ad acquistare fiducia se non c’è il tempo di sedimentare la relazione? Come esprimere il meglio di noi e delle nostre competenze se non c’è il tempo per farlo perché la società e il mondo del lavoro sono impazienti di vedere l’obiettivo raggiunto? Tutto diventa imprevedibile ed impredicibile perché la flessibilità ha contribuito a spezzare la narrazione lineare della vita senza però offrire strumenti per ricucire attraverso linguaggi e pratiche nuovi. Ecco perché flessibilità fa rima con fragilità, non solo del lavoro e delle sue forme, ma anche e soprattutto del lavoratore. Dalla flessibilità delle nuove forme contrattuali, dal lavoro intermittente, ripartito, occasionale, dai contratti temporanei, part-time e di apprendistato alla fragilità di chi in queste forme di lavoro costruisce la propria identità e ne associa non di rado la misurazione del proprio valore il passo è breve. Si tratta di situazioni connotate dalla precarietà. Quali implicazioni hanno sulla vita delle persone e sulla società questo tipo di formule lavorative? Quali limiti e quali opportunità si possono intravvedere? Chi ci aiuta a capire quali rischi valga la pena correre o quali percorsi sia opportuno intraprendere in un contesto in cui sembra che tutti siano "fasce deboli" toccate da un mondo del lavoro sempre più frammentato, difficile, precario? La fragilità dei lavoratori non è solo quella di chi è maggiormente esposto ai rischi connessi al proprio impiego (trasmissione di virus, cadute, inalazioni, etc.), ma è anche quella di chi per qualche motivo porta con sé fragilità acquisite a causa della struttura del sistema stesso o fragilità permanenti, disabilità o particolari patologie, per le quali il mondo del lavoro rappresenta una delle principali sfide per una vita piena. A che punto siamo del percorso di integrazione di queste persone sul piano lavorativo, ma ancor prima sociale e culturale? Quali storie di inclusione ci insegnano che il lavoro non è solo una prestazione d’opera pagata, ma fonte di identità e di sentimento? Quale filo potrebbe ricucire le fragilità del lavoro e trasformarle in potenzialità di cambiamento positivo per l’intero sistema socio-economico e territoriale? Quali passaggi sono necessari per ripensare le fragilità di ognuno come risorse per tutti?
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