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3.2 Le rivolte del pane

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Dicembre 2010-gennaio 2011: la rivolta del pane in Tunisia. La protesta contro il rincaro dei generi di prima necessità nel Paese è stata la scintilla che ha accesso il conflitto sociale. A questa si sono aggiunte le richieste di democrazia e riconoscimento dei diritti umani in un paese dominato dalle relazioni clientelari del regime autoritario di Ben Alì (presidente dal 1989 al 2011), la domanda di futuro e di prospettive da parte dei giovani e la messa in discussione delle condizioni materiali di vita (fonte: Atlante on line)

Tra il 2007 e il 2011, le “rivolte del pane” hanno interessato molte aree del pianeta. In particolare, i media italiani hanno enfatizzato quelle del Nord Africa (Egitto, Tunisia, Algeria), vicine alla nostra penisola, incalzanti la sensibilità italiana perché legate, in qualche modo, ai flussi migratori e alle questioni politiche, sociali, economiche ed etiche sollevate dall’esponenziale aumento degli arrivi da quelle coste in questi ultimi anni.

L’immagine della baguette sventolata come simbolo della protesta tunisina ha fatto il giro del mondo nel 2010. Era l’inizio di una stagione, la “primavera araba”, di vento nuovo proveniente da un sud fin troppo spesso pensato come letargico, dormiente.

Un’altra rivolta del pane è legata alla nostra sensibilità. Nel 1628, in una Milano afflitta dalla carestia, si è consumato il tumulto di San Martino; lo descrive Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi (capp. XI, XII, XIII). Allora, l’aumento del prezzo del grano e di conseguenza del pane aveva portato all’esasperazione le folle affamate. Le autorità pubbliche che accusavano i fornai di nascondere la farina per fare alzare il prezzo del pane, decisero l’imposizione di una legge che stabiliva un tetto massimo ai prezzi al consumo per il pane, un bene di prima necessità, per contrastarne l’aumento eccessivo. Questa legge, che lasciava scontenti i fornai costretti a produrre molto a prezzi bassi con scarsi guadagni, fu revocata per la gioia dei fornai, ma scatenò il popolo.

Le ragioni delle rivolte del 2007 sono simili a quelle di manzoniana memoria.

Il primo episodio di “rivolta” legato ad un bene di prima necessità si è verificato in Messico nel 2007. L’aumento del 400% del prezzo del mais ha fatto lievitare il prezzo delle tortillas, l’alimento-base per oltre 110 milioni di abitanti. L’impossibilità di far fronte ad un bisogno primario ha portato le folle a scendere in strada: è stata la “rivolta delle tortillas”. La problematica si è ripresentata con forza nel 2010 ed è proseguita nel 2011 quando, un ulteriore aumento del 50% del mais, ha costretto il governo del presidente Felipe Calderón a intervenire creando una sorta di mercato di futures  sulla materia prima, il mais, per controllarne il prezzo. Lo scopo era di ridurre il rischio determinato dall’incertezza sulle quotazioni del mais, impegnandosi ad acquistarne una certa quantità ad un prezzo e ad una scadenza definiti al momento della sottoscrizione del contratto e stabilizzandone quindi il prezzo.

Il principale motivo di tale esagerato aumento del prezzo è legato all’aumento della produzione di mais per rispondere alla crescente domanda di bioetanolo utilizzato come carburante alternativo per le automobili. Il bioetanolo viene prodotto principalmente a partire da colture zuccherine, quali canna e barbabietola da zucchero, sorgo zuccherino o da cereali come mais, orzo e grano. Negli Stati Uniti, un terzo delle coltivazioni di mais è destinato alla produzione di etanolo perché la domanda di agrocarburanti è alta e diventa più redditizio per i contadini coltivare piante dalle quali ricavare etanolo che non quelle per il consumo alimentare. Quindi, i prezzi dei cereali aumentano perché diminuisce l’offerta e si innesca una competizione riguardo alla destinazione d’uso delle terre produttive. Oltre ai 7 miliardi di persone che devono mangiare, si aggiungono un miliardo di automobili, milioni di aerei e navi, macchinari, ecc.. Questi ultimi sottraggono terra e acqua alla produzione di mais e di altri cereali necessaria al consumo umano.

Ma non è solo la produzione di agrocarburanti ad aver contribuito negativamente all’impennata dei prezzi, anche altri fattori come la diminuzione delle scorte e l’aumento del consumo di proteine animali ne sono responsabili.

Gli stock nazionali di cibo, in particolare di cereali, servivano i Paesi, ricchi o poveri che fossero, in tempi di calamità o di difficoltà a mantenere stabili i prezzi perché venivano resi disponibili sul mercato nel momento in cui c’era penuria. La diminuzione di questi stock ha contribuito all’incremento dei prezzi. La politica degli anni Ottanta-Novanta della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale è stata di “privatizzare” questi stock affidando le riserve di cibo a società private, come multinazionali o aziende esportatrici del nord del mondo, che le ospitano e le gestiscono nelle loro sedi. Controllare gli stock di cibo dà a queste aziende un potere commerciale e politico smisurato: in questo modo le aziende possono decidere di esportare gli stock a prezzi bassi oppure imporre condizioni strangolanti a seconda degli scenari di profitto che vengono intravisti.

Inoltre, l’aumento del consumo di carne, ha fatto aumentare notevolmente la domanda di cereali da foraggio per alimentare il bestiame, complice l’incremento demografico, ma soprattutto il cambiamento delle abitudini alimentari di molti paesi che stanno vivendo una certa crescita economica come la Cina, i cui consumi di carne sono passati da meno di 4 Kg /procapite annui nel 1961 a più di 58 Kg /procapite annui nel 2013 (vedi il paragrafo 3.3 su Cina: carne e sostenibilità), ma anche il Brasile, la Russia, l’Argentina. Gli Stati Uniti restano però i più importanti consumatori di carne a livello globale: dal 1961 al 2009 gli Stati Uniti sono passati da 89 a 120 Kg annui per abitante.

Alle rivolte messicane hanno fatto seguito altre manifestazioni in Mozambico sempre per l’aumento dei prezzi dei generi alimentari; tra i tanti ci sono stati Argentina, Tagikistan, Egitto e Pakistan, Tunisia, Algeria, Sudan e successivamente anche alcuni Paesi dell’Africa occidentale come il Burkina Faso, il Mali, il Senegal, ecc.

La crescente domanda di agrocarburanti e di foraggio e la riduzione delle scorte alimentari da un lato e la convinzione della FAO di dover aumentare la produzione mondiale di cibo per far fronte al problema della fame (vedi il paragrafo 1.4 sulla sicurezza alimentare) dall’altro, hanno legittimato una corsa alla terra e all’acqua senza precedenti. Questa corsa si sta svolgendo in particolare in Africa, America latina ed Asia, attraverso investimenti agricoli di fondi pubblici e privati europei, americani ed arabi. Gli investimenti sulla terra hanno dato avvio ad un processo definito land grabbing (vedi la guida Unimondo) o accaparramento di terre secondo il quale multinazionali dell’agrobusiness ed organizzazioni finanziarie comprano/affittano a prezzi molto bassi migliaia di ettari di terra per produrre cibo o materie prime (tra cui anche legname e minerali) da esportare per alimentare i mercati ricchi in beni di consumo e combustibili vegetali, cioè agrocarburanti (vedi il paragrafo 3.1 sulla svendita delle terre).

Le “rivolte del pane”, così definite perché scatenate dal rincaro dei prezzi dei generi alimentari di cui il pane è un simbolo forte, bene primario per milioni di persone, sono la testimonianza della crescita sociale di una parte di popolazione che si sente sempre più responsabile nella presa in carico del proprio futuro a partire dal cibo.